sabato 22 maggio 2010

la sardegna

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Introduzione della sardegna :Tutte le indagini demoscopiche sono ormai concordi nel rilevare che la Sardegna è fra le regioni più desiderate come meta per le vacanze. È facile individuare le cause di questa scelta, considerando la vicinanza dell’isola al continente europeo, la bellezza non solamente delle coste sarde ma anche delle montagne, l’ospitalità della gente, le specialità gastronomiche, il fascino del folclore e dell’artigianato di un entroterra che, per quasi tutti i visitatori, è ancora tutto da scoprire.
La Sardegna, appena più piccola della Sicilia, è la seconda isola del Mediterraneo per estensione, ma è anche un piccolo continente per le notevoli varietà di ambienti naturali e umani che la caratterizzano.
Secondo la leggenda il Creatore la “assestò” con il suo piede, dandole l’impronta di un sandalo: Ichnusa e Sandalyon sono infatti i suoi nomi più antichi, attribuitigli da Greci e Fenici.
La conoscenza dell’isola da parte di un gran numero di visitatori si risolve quasi sempre in poche frasi che sono poi altrettanti luoghi comuni: l’isola dei pastori, dell’Aga Khan e della Costa Smeralda, dei nuraghi, dei fichi d’India, dei mamuthones (le maschere carnevalesche di Mamoiada), e naturalmente, “l’isola dei banditi”.
Da queste definizioni sfuggono però i sempre più numerosi “turisti intelligenti” desiderosi di “vedere” ma anche di “comprendere” una così varia realtà.Posta al centro dell’area occidentale del Mediterraneo, rappresenta ormai un punto fermo nell’immaginario collettivo di un popolo sempre più numeroso ed esigente: quello dei viaggiatori e turisti “intelligenti”, alla ricerca del meglio. E quest’Isola così avvincente offre davvero il meglio, sotto un gran numero di aspetti: il mare è il più bello ed intatto, fra quelli così vicini ed accessibili dall’Europa. L’entroterra è ugualmente incontaminato ed insospettabilmente affascinante e vasto. E ciò, in definitiva, perché rispetto ad ogni altra regione adiacente, gli interventi umani sul territorio, che pure ci sono, si può affermare che appaiano quasi insignificanti.

Le caratteristiche sociali ed umane dei sardi, inoltre, offrono altrettanti motivi d’interesse. Basti pensare alla particolarità delle produzioni artigianali e gastronomiche, o all’attaccamento alle più genuine tradizioni, tutti aspetti che giustificano in particolare un viaggio al di fuori dell’affollamento estivo (che comunque non è mai eccessivo), alla ricerca di spiagge del tutto deserte e momenti di festa delle varie comunità: dal Carnevale, per molti versi davvero unico (febbraio-marzo), alle cerimonie pasquali (aprile), fino alle innumerevoli feste di settembre ed ottobre, che si originano dalla chiusura dell’anno agrario, momento stagionale molto sentito, in quanto la popolazione era un tempo composta quasi esclusivamente da contadini e pastori.
Che dire poi del Clima: proprio un clima con la “c” maiuscola, relativamente al turismo; estivo da maggio a settembre, con ampi scampoli d’estate ad aprile ed ottobre (soprattutto nella porzione meridionale), non è mai caldissimo a luglio ed agosto (perché piacevolmente ventilato), con davvero scarsi rischi di piovosità impreviste. A questo proposito si potrebbe aggiungere addirittura un “purtroppo”, per il moltiplicarsi degli anni siccitosi di fine secolo XX, solo in parte diminuiti a partire dal 1995-96.
Questi sette mesi d’estate, da aprile ad ottobre dunque, non sono ancora sfruttati come si dovrebbe, per la scarsità di strutture e di programmazione, relativamente al periodo primaverile e pre-autunnale: ma molto si sta facendo, per indirizzare sull’isola un interesse sempre maggiore e pienamente giustificato verso un turismo non solo balneare, ma rivolto anche alla scoperta dello straordinario patrimonio naturale e culturale dell’intero territorio, dove si possono visitare montagne e foreste, resti archeologici e monumenti di grande rilevanza (come i nuraghi e le chiese romaniche).


il turismo: Visitare la Sardegna significa godere innanzitutto di una sensazione: essere giunti in un altro mondo, con una natura ricca di contrasti, un ambiente umano così vitale e unico, una civiltà tuttora pervasa dalle memorie del passato.
Qualcuno l’ha chiamata l’Isola del silenzio, un “silenzio” che nasce da immensi territori disabitati,da graniti e calcari scolpiti dall’acqua e dal vento, da boschi secolari, dal mare incontaminato.
Ecco dunque la Sardegna che noi desideriamo svelare in queste pagine, conducendo l’internauta in un emozionante viaggio per le strade virtuali di terra ed acqua di quest’Isola unica.


la natura:La Sardegna è certamente la regione italiana più ricca di peculiarità ambientali e paesaggistiche, non soltanto a causa delle sue grandi dimensioni territoriali (oltre 24.000 kmq), ma soprattutto perché vi sono rappresentate tutte le ere geologiche (tranne l’Archeozoica) con una serie di ambienti di estrema variabilità morfologica, con relative popolazioni floro-faunistiche di enorme interesse, spesso endemiche.
In queste pagine ci proponiamo di suscitare nell’internauta quel desiderio e voglia di conoscere che lo spinga alla scoperta della multiforme natura sarda, dalle coste alle montagne, dalle valli ai boschi, dai laghi artificiali agli stagni costieri di tutta l'Isola.

L'ambiente della sardegna si divide in quattro zone :
- ambiente della costa: L’ambiente costiero è certamente il più grande motivo d’interesse per il visitatore. Nell’Ottocento l’isola fu definita “una tavolozza azzurra poggiata sul mare”; ed essa offre ancora sensazioni paesaggistiche antiche, che si provavano un tempo, forse ancora quelle dello scorso secolo. Da una barca a largo, i colori visibili della costa sono un azzurro appena venato dal rosso e dal marrone dei rilievi e, in estate, del cisto disseccato: sembra un altopiano in diretto rapporto con il mare. Per distinguere i segni dell’uomo, che pure ci sono, è necessario avvicinarsi, e non di poco.La Sardegna, dei suoi 1.850 Km di coste, quasi un quarto dell’intero sviluppo litoraneo italiano, ne ha infatti meno di 300 urbanizzati. Se si evitano questi tratti, peraltro ben conosciuti, si potranno scoprire invece tutte le sfumature del blu, l’ineguagliabile trasparenza ed il colore dell’acqua, che dipende dalla profondità e dal colore della sabbia, ma anche dalla posizione del sole. La perfetta pulizia delle acque è dovuta alla scarsità di materiale in sospensione, che in genere proviene dai corsi d’acqua dell’entroterra: questi determinerebbero un “inquinamento naturale”, ma sono asciutti in estate. Questo patrimonio costiero, fatto di golfi e di profonde insenature, di promontori e splendide spiagge, di baie e cale appartate, comprese le decine di isole minori, tutte di diverse dimensioni, con la bellezza dei colori e la trasparenza del mare ancora incontaminato non attira solo gli appassionati del miglior turismo balneare, ma anche i diportisti, desiderosi di navigare. La consapevolezza dei benefici che lo sviluppo di questo turismo può dare all’intera isola, ha indotto la progettazione di una serie di nuovi porti, per aumentare le possibilità del turismo nautico, offrendo agli equipaggi e alle imbarcazioni le migliori condizioni di assistenza. I progetti già realizzati, purtroppo, sono al momento davvero pochi, ed insufficienti a garantire i servizi di chi non vuole navigare “spartanamente”. Per garantire al navigante diportista un periplo dell’intera isola, con distanze, tra uno scalo e l’altro, abbastanza brevi e facilmente percorribili, occorre accelerare la realizzazione dei porti in programma. Più semplice approfittare dell’inesauribile offerta di spiagge libere e spesso incontaminate, e finalmente (ma solo negli ultimi anni) dotate di un servizio di raccolta dei rifiuti, ormai operante quasi ovunque, anche se non al meglio.
Tutte le coste dell’isola meritano una visita; a volo d’uccello si possono ricordare per l’esclusivo fascino del granito quelle settentrionali: in Gallura, dall’arcipelago di La Maddalena alle spiagge di Capo Testa a Santa Teresa, fino alla Costa Smeralda, a Golfo Aranci ed a Olbia, non si contano gli angoli
incantevoli, con lo straordinario spettacolo delle isole Tavolara e Molara.


ambiente di pianura: L’ambiente delle pianure è forse di minor impatto turistico ma custodisce aspetti ed elementi di grande interesse culturale ed umano, con insediamenti preistorici e monumenti di rilievo, e paesi ad economia agricola, come nel Campidano, con la loro architettura, i loro usi e costumi particolari. Le pianure sarde sono originate dal riempimento alluvionale di antiche anse marine, e sono principalmente la Nurra al nord (Sassari) ed il Campidano dal centro ovest verso tutto il centro-sud dell’isola (Oristano e Cagliari). Il momento migliore per la visita è certamente la primavera, quando la “tavolozza dei colori” sardi si arricchisce delle immense distese di fioriture gialle, rosse e azzurre dei vasti pascoli, percorsi dalle pecore finalmente ben sazie, grazie alla grande produzione di erba. Il paesaggio di pianura, in genere spoglio, è occupato in parte da una pianta, la vite, che nel dopoguerra (e soprattutto nel Cagliaritano), ha sostituito la millenaria coltura dei pregiatissimi cereali sardi, che comunque non è fortunatamente del tutto scomparsa; altra coltura tipica è l’olivo, mentre nel Cagliaritano e nel Sarrabus (dove si incontra un’altra piana costiera) si segnalano rispettivamente le pesche e gli agrumi.
Da segnalare anche le pianure di Orosei (valle del Cedrino) e Tortolì.


ambiente di collina: L’ambiente di collina è caratterizzato, specie nella Sardegna orientale (e in particolare nella Gallura e nel Nuorese), da una spiccata pendenza, fin dalle quote più basse, per cui il passaggio alle altitudini più elevate non è proprio netto; le rocce sono via via sempre più affioranti: soprattutto il granito, ma anche il basalto delle eruzioni terziarie, in genere di colore scuro. Un paesaggio collinare più consono ai più frequenti canoni di giacitura poco scoscesa lo si può ammirare nella Trexenta-Marmilla, due belle regioni poste tra le province di Cagliari e di Oristano. Fra gli alberi naturali della collina si distingue l’olivastro, i cui fusti sono spesso piegati per l’azione continua del vento dominante: il maestrale. In generale i paesi di collina tendono ad avere una pastorizia più sviluppata e, sempre considerando l’ambito delle attività tradizionali, l’artigianato tipico è molto valido e diffuso.
L’ambiente delle pianure è forse di minor impatto turistico ma custodisce aspetti ed elementi di grande interesse culturale ed umano, con insediamenti preistorici e monumenti di rilievo, e paesi ad economia agricola, come nel Campidano, con la loro architettura, i loro usi e costumi particolari. Le pianure sarde sono originate dal riempimento alluvionale di antiche anse marine, e sono principalmente la Nurra al nord (Sassari) ed il Campidano dal centro ovest verso tutto il centro-sud dell’isola (Oristano e Cagliari). Il momento migliore per la visita è certamente la primavera, quando la “tavolozza dei colori” sardi si arricchisce delle immense distese di fioriture gialle, rosse e azzurre dei vasti pascoli, percorsi dalle pecore finalmente ben sazie, grazie alla grande produzione di erba. Il paesaggio di pianura, in genere spoglio, è occupato in parte da una pianta, la vite, che nel dopoguerra (e soprattutto nel Cagliaritano), ha sostituito la millenaria coltura dei pregiatissimi cereali sardi, che comunque non è fortunatamente del tutto scomparsa; altra coltura tipica è l’olivo, mentre nel Cagliaritano e nel Sarrabus (dove si incontra un’altra piana costiera) si segnalano rispettivamente le pesche e gli agrumi.
Da segnalare anche le pianure di Orosei (valle del Cedrino) e Tortolì.

ambiente di montagna: Nella Gallura una serie di alte cime, quelle del Monte Limbara (circa 1.300 m), formano il gruppo granitico più alto dell’Isola; più a sud l’Altopiano di Alà-Buddusò, sui mille metri di altitudine, è sempre costituito da granito. Nel Logudoro e nella zona di Villanova Monteleone vi sono estese montagne di origine vulcanica, che giungono fino al mare.
Oltre al massiccio del Gennargentu, nella Barbagia si individuano le vaste montagne calcaree del Supramonte, tra i paesi di Oliena, Dorgali, Urzulei, Baunei, e Orgosolo. Nella Baronia, sul lato nord della Provincia di Nuoro, si evidenzia l’allungata mole calcarea del Monte Albo, simile ad un bastione, e nella zona di Macomer, Bolotana e Bono (ad ovest) la catena del Marghine-Goceano.
Nell’Oristanese si incontrano i gruppi del Montiferru e del Monte Arci che, come i Monti Grighine, hanno origine vulcanica.
In Provincia di Cagliari, nel lato sud-orientale dell’Isola, verso il mare, troviamo il gruppo dei Monti Sette Fratelli (cosiddetto perché presenta sette cime principali), mentre verso nord si stende il Salto di Quirra, sconfinata e solitaria distesa di aspre montagne, strette valli ed altopiani calcarei, attraversata dal Flumendosa. Oltre al grande interesse geologico (e un tempo minerario), le montagne del Sulcis-Iglesiente (nel sud-ovest della Provincia di Cagliari) hanno grande importanza naturalistica, in quanto ospitano le più vaste foreste dell’Isola.


- FLORA= La Flora comprende un’innumerevole varietà di piante officinali: ad esempio il timo in montagna e il rosmarino lungo le coste. Il fiore più bello è la rosa peonia del Supramonte, cui si affianca il pancrazio illirico, stretto parente del giglio di mare diffuso sulle spiagge. Le condizioni dei terreni e del clima determinano la grande diffusione di piante cespugliose, che spesso sono molto fitte e danno luogo alle distese di macchia-foresta, in genere impenetrabile ed intricata, regno dei cinghiali e delle volpi; sono formate in prevalenza dai lentischi, dagli olivastri, dalle eriche e dai corbezzoli. Le foreste, molto impoverite a causa dei tagli irrazionali operati nel sec. XIX, sono comunque discretamente estese, grazie alla vastità del territorio (oltre 9.000 Kmq); le più caratteristiche sono quelle di lecci, diffuse soprattutto in Barbagia, nel Sulcis e nel Sarrabus. Quelle di sughere, in parte introdotte dall’uomo, coprono vaste aree della Gallura. Splendidi sono infine i castagneti che prosperano lungo le falde occidentali del Gennargentu.
Le belle pinete litoranee hanno origine dal rimboschimento: a queste si mescolano spesso gli stupendi ginepri, pianta simbolo della Sardegna, dal lentissimo accrescimento e dal profumo caratteristico; si trova un po’ in tutte le spiagge con esemplari isolati, ma forma anche delle vere foreste soprattutto sul Supramonte e lungo il Golfo di Orosei (NU).


- CLIMA= Il clima sardo è tipicamente mediterraneo, caratterizzato da inverni miti ed estati calde. Mentre in autunno il bel tempo dura fino a metà novembre, in primavera comincia a fare caldo fin da aprile. Durante l’inverno, a fine dicembre e a gennaio, le condizioni meteorologiche determinano spesso un periodo asciutto: le secche di gennaio (anche 15 giorni di sole). Il clima della Sardegna, dunque, è davvero “turistico”: per almeno 300 giorni l’anno non piove e di questi almeno 200 sono di cielo sereno, con 2.500 ore di insolazione in media.

Le località più calde in inverno si trovano lungo le coste, con il primato di Cala Gonone (19,5° di media annuale), mentre all’interno dell’Isola la temperatura varia con l’altitudine. D’estate, le alte temperature raggiunte dalle zone di pianura e di collina si mitigano lievemente solo nei paesi montani della Barbagia, intorno al Gennargentu, e naturalmente lungo le coste, dove è sempre presente il fresco vento, a regime di brezza, proveniente dal mare.

LA GASTRONOMIA

La Sardegna tiene fede alla sua insularità anche e soprattutto nelle sue produzioni della gastronomia, decisamente originali e tradizionalmente legate ad un mondo ormai in parte scomparso, quello agro-pastorale arcaico, di cui rimarrà in vita, nel tempo, forse solo questo aspetto. Scarsità di pietanze elaborate, schiettezza nei sapori e negli odori, genuinità in tutti i prodotti utilizzati, dalla carne al formaggio, dalla pasta fatta in casa ai vini, sono le sue caratteristiche principali.
La varietà della cucina, in Sardegna, è paragonabile alla varietà dei paesaggi. La .gastronomia sarda, infatti, affianca ai sapori del mare i gusti ed i forti aromi delle essenze mediterranee della sua flora, ed offre sia piatti di antica tradizione pastorale e contadina sia di origine marinara, preparati dai pescatori o dalle loro mogli, con le prede della giornata; l’insieme delle ricette rivela anche la predisposizione ad accogliere tradizioni culinarie di antichi invasori e di più recenti popoli dominatori o ospitati, come i catalani ad Alghero o i tabarchini-pegliesi di Carloforte, giunti questi ultimi nell’isola di San Pietro solo al principio del Settecento.
Ricordiamo che in Sardegna le varie piante officinali che altrove è necessario coltivare (ed acquistare dal fruttivendolo a caro prezzo) si trovano spontanee, così come meritano un cenno anche le molte specie di verdura coltivate, tra cui i carciofi, che sono più ricchi di sapore rispetto alle varietà del continente, ed hanno le spine; anche i pomodori sono rinomati, così come le melanzane e le altre innumerevoli primizie.

- IL PANE= Il pane più “famoso” è il pane carasau, cioè biscottato: noto anche come “carta da musica” perché croccante, proviene dalla Barbagia, terra di pastori che, dovendo stare per molto tempo isolati nelle campagne, avevano ed hanno ancora bisogno di un pane facilmente trasportabile ed a lunga conservazione. Tali caratteristiche hanno dato luogo ad un grande sviluppo nella produzione di questo pane, esportato ovunque.
I tipi di pane sardo sono talmente numerosi, che risulta impossibile in questa sede anche un’elencazione parziale. Citiamo ancora, a titolo d’esempio, il pane con le patate o con lo strutto, e ancora le squisite spianate, focacce con diverse caratteristiche da zona a zona, il sottile carasau, con l’ottima variante del bissau di Benetutti, il pistoccu del Nuorese (Gennargentu), la spianata o pane di Ozieri (SS), il civraxiu del Campidano di Cagliari (grossa e fragrante pagnotta), e ancora la pasta dura sia di farina che di semola, chiamata in molti luoghi su coccoi, che viene elaborata in varie forme, e che si consuma in occasioni particolari come Pasqua, Natale, matrimoni o feste di santi protettori, e tantissimi altri tipi.
C’è invece da dire che col pane carasau si prepara il primo piatto più caratteristico dell’isola, su pane frattau: ammollato con una rapidissima immersione nell’acqua bollente o nel brodo, le sfoglie sono condite con sugo di pomodoro (o ragù) e formaggio; ha le sue origini in Barbagia.

- I FORMAGGI= L’importanza della descrizione riguardante i prodotti caseari trascende, in Sardegna, il significato puramente gastronomico, data sua la grande importanza economica, e la millenaria tradizione che contraddistingue questo prodotto pastorale. Il sapore del formaggio sardo è del tutto diverso da quello degli altri formaggi, e ciò è dovuto alla natura dei pascoli, al clima che concentra ed evidenzia gli aromi mediterranei di centinaia di specie pabulari diverse, al sistema di produzione, alle razze allevate. In Sardegna si producono formaggi ovini, caprini e vaccini. Vi sono formaggi a pasta dura, più o meno stagionati, e formaggi a pasta molle.
I formaggi ovini si distinguono in cotti, semicotti, crudi. Il fiore sardo è un formaggio a pasta cruda, della Barbagia di Ollolai (Gavoi, Fonni, Lodine, Ollolai). Il pecorino romano della Sardegna, tipico formaggio “cotto”, gode anch’esso della tutela di un omonimo consorzio; interamente prodotto nei moderni caseifici isolani, è destinato quasi tutto all’esportazione. In Sardegna è molto diffuso il consumo (e la produzione), oltreché l’utilizzo gastronomico, del classico pecorino sardo semicotto, fatto dai pastori oppure nei caseifici; le forme sono piccole, di 1-4 kg. I rari pecorini chera ruia (letteralmente, cera rossa) sono molto stagionati, particolarissimi. Se la stagionatura va male si ottiene un’altra specialità: su casu marzu (il formaggio marcio), dal forte sapore piccante.
Dal latte di capra si ottiene il formaggio caprino sardo, che è a pasta molle, molto simile a quello precedentemente descritto nell’aspetto, ma con sapore forte e selvatico, ricco di elementi importanti per la crescita e l’alimentazione degli sportivi. Molto apprezzato anche il tipo a pasta dura, con stagionatura non tanto lunga.
Fra i formaggi vaccini, il più caratteristico è su casizzolu o taedda (nel centro-nord) o pireddas (a sud dell’isola), differenti nomi che indicano le comuni perette o caciocavallo, a pasta leggermente filata. Pregevoli anche i misti (di latte vaccino e ovino); con una sapiente stagionatura, assumono una straordinaria ed insospettabile rassomiglianza all’ormai troppo consueto parmigiano.
Molto diffusi anche i formaggi molli, con brevissima stagionatura. Questi ultimi hanno grande interesse per il frequente uso che se ne può fare a tavola: ricordiamo i tipi bonassai, di latte ovino, e il dolce sardo, di latte vaccino.
La ricotta sarda è meravigliosamente cremosa, decisamente superiore a quelle prodotte nelle altre regioni. Può anche essere stagionata, e allora viene detta ricotta mustia; in tal caso è lievemente affumicata. Altri tipici latticini sono sa frue salìa, cioè la cagliata acida sarda, e gli yogurt (gioddu, junchetta).


- I DOLCI= La varietà di dolci che si producono nell’isola è notevolissima, spesso collegata al periodo dell’anno o a certe festività, anche se la maggior parte si trovano tutto l’anno nei negozi e nelle pasticcerie specializzate.
Sono molto comuni ovunque bianchini; copulette; guelfi; amaretti; tiliccas o cocciuleddu ‘e meli; anicini (pasta frolla con semi d’anice); e tanti altri.
Nella zona di Sassari la tradizione dolciaria predilige i papassini o pabassinas, e le formaggelle, dette anche casadinas; a Cagliari i papassini (pabassinas) sono a base di sapa, cioè vin cotto; famosi i sospiri di Ozieri (SS). Particolarmente vasta la produzione della Provincia di Nuoro: i pistiddos, i vari tipi di biscotti d’uovo di Dorgali, Oliena, Mamoiada e Fonni, l’aranzada di Nuoro, il gattò di Barbagia (crocccante di mandorle al miele), il pan di sapa di Orgosolo, sas pompìas (particolare tipo di agrumi canditi) di Siniscola, il famoso torrone sardo del Gennargentu.
La “regina” dei dolci barbaricini, e da qui diffusosi in tutta l’isola, è la favolosa sebada o seada: un grande e tondeggiante raviolo di pasta fritta, ripieno di formaggio filante.
Ad Oristano il dolce più caratteristico è il mustacciolo, is mustazzolus, e poi le zippole e le altre specialità comuni a tutta l’isola.
Anche in Provincia di Cagliari i dolci tipici sono numerosi: il gattò, i pirichittus; i candelaus; i gueffus; le pardulas; il trigu puddinu (un dolce particolare, fatto di grano cotto nella sapa); i neuleddi; le ciambelle campidanesi; le fantine; i culingionis; il pappai biancu; i giasminus.
Un cenno apposito merita il miele, che si produce in tutta l’isola e soprattutto in Gallura, Barbagia e nell’area meridionale. Il clima mite favorisce le maggiori produzioni, grazie alle fioriture più lunghe delle piante e delle erbe selvatiche. Il miele amaro si ottiene dal corbezzolo, soprattutto in Gallura, ed è di colore scuro. Con il miele si “condiscono” alcuni dolci locali, come le zippole o frittelle di Carnevale e le sebadas.










le seadas....
- IL VINO= La vite, in Sardegna, sembra aver avuto una diffusione contemporanea a quella dell’uomo stesso: si afferma persino che qualche ancestrale varietà fu autoctona dell’isola, oppure che immigrazioni susseguitesi nei millenni portarono i vari ceppi di originari vitigni, da cui derivano le attuali specie coltivate. Nel Medioevo vi fu un periodo di decadenza nella produzione, ma il Fara, geografo cinquecentesco, confermò la ripresa di quel periodo, con la frase Sardinia insula vini, già coniata 1500 anni prima dai romani.

Provincia di Cagliari
La scelta di vini di alta qualità è quanto mai vasta in Provincia di Cagliari. Tra Cagliari e i paesi che gli fanno corona per una ventina di Km in linea d’aria, la pianura era detta fino al 1990 Campidano Vitato. Qui la vite, soprattutto dal 1960, aveva preso il sopravvento soppiantando le altre colture, un tempo molto diffuse, come ad esempio le più tradizionali, quelle cerealicole. I contributi della UE (1990-95) per l’estirpazione delle vigne hanno prodotto la scomparsa di molti vigneti, che comunque sono ancora ben diffusi.
I più noti vini del sud dell’isola sono il Carignano, il Nuragus e il Monica, tutti doc, il primo prodotto in prevalenza nel Sulcis, il secondo nel Cagliaritano e (in parte) nella Provincia di Nuoro, il terzo nel Campidano.
Il Carignano del Sulcis proviene dagli omonimi vitigni coltivati a Sant’Antioco, Calasetta e Santadi; il Rosso ha colore ricco, sapore asciutto, armonico, sui 12-13°, adatto per arrosti; il Rosato va bene con gli antipasti, per i primi piatti e le carni bianche, ed ha sapore asciutto e vellutato.
Il Nuragus si ottiene da un vitigno forse autoctono dell’isola, come già accennato, e dà vini color paglierino tenue, con profumo delicato, sapore secco, armonico, lievemente acidulo, odore vinoso gradevole, gradazione minima 11°, ottimi da tutto pasto, adattissimi per gli antipasti e il pesce. Le cantine sociali di produzione sono localizzate a Dolianova, Iglesias, Monserrato, Quartu Sant’Elena, Santa Margherita di Pula, Sanluri, Serramanna, insieme a varie cantine private. Una certa quantità di Nuragus proviene dalle Province di Oristano e Nuoro.
Il Monica ha colore rosso rubino chiaro, brillante, tendente all’amaranto con l’invecchiamento, sapore morbido ed asciutto con retrogusto caratteristico, aroma che ricorda vagamente quello dell’uva passa, profumo intenso e vinoso, gradazione dai 12° in su; si adatta perfettamente con le carni e gli arrosti, salumi e formaggi, anche piccanti. Lo producono varie cantine private e le cantine sociali di Dolianova, Iglesias, Monserrato, Santa Margherita di Pula, Sanluri, Santadi, Serramanna, Quartu Sant’Elena, Settimo San Pietro, Sinnai, Monastir, Soleminis.
Altri notevoli vini sono il Girò di Cagliari, rosso secco sui 12° per carni, arrosti e formaggi, dal sapore dolce, morbido e vellutato; il Nasco di Cagliari, bianco da aperitivo e da fine pasto, profumato intensamente di fiori e di muschio, o d’uve appena passite, liquoroso e dolce con accenno di retrogusto amarognolo; il Moscato di Cagliari, di colore giallo chiaro, sapore dolce, aromatico, vellutato, sui 12°, da fine pasto; la Malvasia di Cagliari, color giallo dorato, profumo delicato, sapore piacevole, secco, da bersi come aperitivo, insieme al dessert ed anche come digestivo (è molto simile alla Malvasia bosana); il Semidano del Campidano, vino ambrato e profumato, da fine pasto o per accompagnare i dolci; il Cannonau di Cagliari, dai vitigni del Parteolla, di Castiadas, di Decimomannu e di Serramanna; il Marmilla, bianco sugli 11°; il Sardus Pater, anch’esso bianco, sui 12°, da bere giovane; e ancora il Prima Goccia e il Cixerri, da uve nuragus, trebbiano e malvasia: sono bianchi da pesce, sui 12°, o rossi e rosati da pasto, sugli 11-12°. E ancora i buoni vermentini, le vernacce, i trebbiani, che completano una scelta veramente speciale e di notevole valore.
Sempre nella provincia cagliaritana sono assolutamente da segnalare i prodotti della Cantina Argiolas di Serdiana, fra i più pregiati dell’isola.
- I LIQUORI= ll liquore più noto e diffuso della Sardegna è il liquore di mirto, nelle varietà rosso e bianco (il primo scurissimo, il secondo gradevolmente ambrato o giallino), prodotto da molte aziende dell’Isola con i frutti di questa diffusissima pianta; affermati anche i liquori di erbe come il Flora del Limbara (Tempio Pausania) e soprattutto il Villacidro Murgia dell’omonima ditta campidanese. Dal 1995 si è diffusa la produzione di un pregiato limoncello, anch’esso da agrumi sardi.

Ma sono le grappe a chiudere questo cenno sulle bevande tipiche, poiché l’acqua vite sarda è certamente un’altra specialità di questa terra: la Fogu de Sardinia, la Gennargentu e la Filu ‘e Ferru costituiscono infatti un capitolo a sé in questo panorama gastronomico. L’acqua vite, detta in Barbagia s’abba ardente (= acqua bruciante), viene offerta spesso ad ore e in stagioni impensabili per una bevuta, a rappresentare “in un solo sorso” tutto il carattere schietto e forte di questa terra e delle sue genti


LE TRADIZIONI

Non è questo certo il luogo dove tessere le lodi dei Sardi, un popolo antico che fin dalla Preistoria ha dovuto lottare contro la scarsità delle risorse della sua isola, dispensatrice certo di meravigliosi panorami naturali, ma anche avara di acque e di cibo. La dura realtà quotidiana è ancora affrontata, in molte zone dell’isola, con la forza di tanti animi rudi e nobili al tempo stesso, plasmati dalle fatiche e ugualmente pronti a dispensare, a conosciuti e sconosciuti, tutte le possibili gentilezze e come minimo una frugale ospitalità.
La Sardegna è una terra di contrasti dove il pastore conduce il suo gregge al pascolo (e probabilmente lo condurrà per sempre) in genere in luoghi solitari, ma anche sotto le improbabili ciminiere fumanti delle industrie petrolchimiche, e dove modernissimi insediamenti turistici sorgono accanto agli antichi “stazzi” (anche questi destinati a permanere) delle tenute agro-pastorali.
Una terra ormai non più povera ma certo piena di problemi, in cui i sardi sono da sempre impegnati a riscattare la propria situazione, senza perdere mai di vista la propria identità.

- IL COSTUME TRADIZIONALE= In pochi altri luoghi il Costume tradizionale esprime il carattere dell'uomo e della sua terra come in Sardegna.
Ancora oggi è possibile ammirare un gran numero di persone che quotidianamente indossano i tradizionali costumi per le vie di vari centri dell'isola, come Desulo, Busachi, e tanti altri della Barbagia (in Provincia di Nuoro), dell'Oristanese e del Sassarese; gli altri possono essere ancora ammirati nelle principali feste e sagre, soprattutto nelle processioni di Sant’Efisio a Cagliari (a maggio), del Redentore a Nuoro (ad agosto) e nella Cavalcata di Sassari (ancora a maggio).
Questi rappresentano i principali appuntamenti in cui il costume sardo assume il ruolo di protagonista, con i suoi colori, la bellezza delle donne e la fierezza degli uomini che lo indossano, e l'ammirazione che suscita allorché, al suono delle fisarmoniche, degli organetti e delle chitarre, gli abili ballerini muovono i difficili passi dei tradizionali balli dei vari paesi.

CARATTERISTICHE GENERALI DEI COSTUMI FEMMINILI
Non è possibile tracciare un quadro storico completo del costume femminile poiché troppe sono le influenze che esso ha subìto.
Si può solo azzardare l'ipotesi che, nelle linee generali, i costumi femminili sardi giunti sino a noi derivino da abiti medioevali (vedi l'uso della benda, ancora vivo in molti paesi dell'entroterra, cioè quelli che senz'altro hanno subìto minori influenze esterne), mentre è sicuramente prevalente l'influenza spagnola per i costumi dei paesi costieri e di pianura (esclusi Carloforte e La Maddalena).
Interessanti ipotesi sulle origini del costume femminile sardo furono elaborate da Padre A. Bresciani in “Dei costumi dell'isola di Sardegna” comparati con gli antichissimi popoli orientali, nelle pagg. 48-50.
“...Voi vedrete che nelle donne sarde signoreggia il vestimento, ch'io appello largamente fenicio, pelasgico, ed ellenico, tolte alcune guise particolari, che s'attengono forse ai primissimi abitatori dell'isola, e che ci paiono tenere alquanto degli Egiziani dei Babilonesi, de' primitivi abitatori d'Italia, in ispezialità fra le montanine della Barbagia, e dell'Oleastra. E ciò che più stupirete fia l'assomigliarsi d'alcune fogge Sarde con quelle che poi ci recarono allo scadimento dell'imperio romano i Vandali, gli Alani, i Goti, i Franchi, e i Longobardi; il perché assai scrittori le reputarono fogge del medio evo; laddove per converso io le ravviso per antichissime al ragguaglio de' monumenti...”.
“... Le dame di Cagliari, e di Sassari vestirono alla spagnola, sinché Aragona e poi Castiglia signoreggiaron l'Isola: e passata indi la Sardegna sotto l'augusta Casa di Savoia, che sì felicemente la regna, lasciate le cappe, le grandiglie, e i mantiglioni spagnuoli si recarono al vestire italiano, ed ora all'auniversale d'Europa, che muta foggia ad ogni scemare e crescer di luna. Per contrario le donne Sarde de' villaggi, tenacissime osservatrici di loro usanze, non si condussero sì agevolmente a dismettere, o scambiar la fortuna naturale di loro vesti, e di loro contigie se non forse in alcuni leggeri accidenti di fibbie, di drappi, di nastri, che devono usare come li dà il tempo, e gli artieri li modellano, e li recano d'oltre mare i mercatanti...”.


CARATTERISTICHE GENERALI DEL COSTUME MASCHILE
Il Costume maschile (e ci riferiamo principalmente a quello del secolo scorso) presenta caratteri di uniformità in tutta l'isola, tanto che è possibile elencare brevemente i principali capi di vestiario tradizionale.
Anteriormente al 1850 l'abito era essenzialmente costituito dal collettu (a volerlo paragonare con un capo di vestiario moderno, vengono subito in mente certi copriabiti di cuoio in uso presso i mattatoi); le descrizioni del collettu sono un po' in tutti i testi precedentemente citati: ricordiamo in particolar modo la descrizione data dal Della Marmora nel cap. IV del “Voyage en Sardaigne”, dedicato all'abbigliamento.
Sotto su collettu era una camicia simile a quelle giunte fino a noi (le stampe testimoniano però, quasi dappertutto nell'isola, l'uso di quattro bottoni per chiudere il collo); sopra la camicia, un corittu. Inferiormente ragas di orbace, parzialmente coperte dalle falde del collettu, poi bragas di cotone o lino, ed infine crazzas di orbace o cuoio.
Come copricapo, sempre anteriormente al 1850, si notano delle differenze a seconda delle zone. Nel Sassarese, ove erano usati vari tipi di copricapo, singolare era il modo di portare la berritta (vedi tavola intitolata “Fisionomie Sassaresi”, della Raccolta Cominotti); nel Campidano è documentato l'uso di berritte (portate in svariati modi: raccolte a cecciu, irrigidite con la pece, impixadas, o distese), cappelli a larga tesa con sotto delle reticelle alla catalana ed anche fazzoletti sul tipo di quelli femminili (i contadini).
Sopra questi abiti spesso veniva posta, da pastori e contadini, l'antichissima beste 'e peddi (la mastruca di cui parla Cicerone - “Pro Sauro 45”) assieme a su saccu, due pezzi di orbace rettangolari, cuciti secondo due lati consecutivi. Copriabiti più eleganti erano su gabbanu (cappotto di orbace lungo fin sotto il ginocchio) e sa gabbanella (simile al precedente, ma più corta), entrambi con o senza capuccio. Fra i copriabiti compare poi su sereniccu: su questo sereniccu si è tanto disputato e non ci si è messi d'accordo sull'etimologia, né sulla sua provenienza. Per ciò che riguarda l'etimologia, secondo alcuni (anche il Della Marmora ne era pienamente convinto, e anzi diceva di avere appreso la notizia da fonte sicura) tale nome deriverebbe da Salonicco (città dalla quale i cappotti sarebbero stati importati); secondo altri deriverebbero da su sereno (perché si indossa a su sereno, cioè alla sera quando rinfresca). Su sereniccu comunque non era di orbace (quello originale), ma di un tessuto di lana morbido importato da Napoli, sempre dotato di un lungo cappuccio terminante con una nappina. Spesso veniva indossato a mo’ di mantello: tale uso ha fatto si che in epoche più recenti siano stati confezionati dei sereniccos con le spalle tanto strette da non poter infilare le maniche.
Il sereniccu, assieme al collettu, ai cappelli a larghe tese, ai fazzoletti e alle reticelle, è stato completamente abbandonato nella seconda metà dell'Ottocento. Molto di più hanno resistito l'arcaica pedde o mastruca (ancora indossata dai pastori del Supramonte); il sacco, di cui si trovano tuttora esemplari in molti paesi (purtroppo però vengono disfatti per recuperare l'orbace e confezionare con questo ragas e crazzas nuove) e i vari gabbani e gabbanelle, che spesso fanno la stessa fine de su saccu.
Dalla seconda metà del 1800 in poi, i costumi (per la maggior parte dei casi) sono quelli che conosciamo.

- IL CARNEVALE= La primavera è ancora di là da venire ma già l’uomo, almeno con lo spirito, tenta di scacciare il tetro inverno. Lo fa con il Carnevale, il momento della trasgressione, quello in cui si realizza il desiderio di dimenticare gli affanni della vita. Dopo l’ultima guerra il Carnevale aveva subito, un po’ da tutte le parti, un progressivo declino, tanto che, alla fine degli anni Cinquanta, lo si considerava vicino alla definitiva scomparsa. Invece, verso la metà del decennio successivo, si è verificato un grande risveglio. Le vecchie consuetudini sono state riproposte con maggior vitalità del passato e, di anno in anno, è aumentato il numero dei centri che rispolverano le tradizioni legate a questa festa dell’effimero, in cui la fantasia può galoppare a briglia sciolta per ridere di tutto e deridere tutti, fino a dimenticare perfino le regole del viver civile. Si rinnova così il rito pagano della gioia, che coinvolge grandi e piccini e li accomuna nel condannare a morte un fantoccio di pezza, simbolo delle tristezze quotidiane.
Carrasegàre, il Carnevale sardo, è però qualcosa di più. Soprattutto nelle zone interne, questa festa antica rappresenta il risveglio della terra dopo l'inverno, e conserva ancora notevoli valori socio-culturali legati al mondo arcaico. Infatti, le tradizioni agricole e pastorali riaffiorano, in tutta spontaneità, dai rituali propiziatori del raccolto. Da talune manifestazioni, inoltre, traspaiono gli aspetti tristi, spesso drammatici, di cui è punteggiato il passato dell’isola. Così si spiegano i solenni riti funebri che caratterizzano la morte del fantoccio ed i tradizionali lamenti (attìtidus) delle “prefiche” (uomini mascherati da donna). E non senza ragione, giacché questi elementi sono profondamente radicati nell’uomo, diretto protagonista del Carnevale, e nulla riesce a metterli in ombra: neppure la sempre più insistente presenza, in questi ultimi anni, delle majorettes e le dilaganti sfilate di carri allegorici che nulla hanno da spartire con le antiche usanze dell’isola. Dimostrano solo che talvolta, purtroppo, ci si lascia prender la mano da contaminazioni prive di spontaneità, frutto inevitabile della incalzante congiura del consumismo.
Ma, alla fin fine, il Carnevale rappresenta per lo meno un’occasione per fare scorpacciate di zìpulas - che sono le più raffinate tra le frittelle - ed affogare le tristezze della vita di tutti i giorni nel vino o, meglio ancora, nel profumato vernaccia. Anche questo è un modo semplice e genuino per dare un colorito roseo al mondo circostante ed al futuro ignoto che incombe.Per tratteggiare le tradizioni del Carnevale sardo è possibile l’uso del presente in quanto esse stanno tornando di attualità in quasi tutti i centri. Come già detto, per lo più i festeggiamenti prendono l’avvio il 16 gennaio, quando si accendono i falò in onore di Sant’ Antonio Abate. In tale ricorrenza le maschere più autentiche si danno appuntamento attorno ai fuochi per sbizzarrirsi nei caratteristici balli che si accentuano con il passar dei giorni. Da ciò ha forse tratto origine l’antico detto “is ballus de sacarapèzza si prànginti in Carèsima” (i balli di Carnevale si piangono in Quaresima). Mentre l’etimologia di sacarapèzza risulta oscura, pur indicando inequivocabilmente il Carnevale, è evidente la morale, intesa a porre in risalto che l’esser prodighi in questo periodo può comportare difficoltà durante la Quaresima.
Questo detto è oggi sconosciuto ai più; ma, anche se fosse popolare, il suo contenuto non servirebbe certo a smorzare il tradizionale entusiasmo che culmina con la distruzione del fantoccio come auspicio di tempi migliori. Un fantoccio che da una località all’altra prende nomi diversi, spesso etimologicamente non identificabili: dal Cancioffàli di Cagliari al Ghjòlglju di Tempio, Maimòne in Ogliastra, Coli-coli in Barbagia, Norfièddu scancioffàu di Iglesias, su Marrullèri di Marrubiu, s’Antreccòru di Isili, Randazzèddu di Paulilatino, Iuvànne Martis di Mamoiada ed Ottana, Don Conte di Ovodda, Ziu Carracòi di Nuoro, Re Carestìa di Ussana, su Rei Imbriagòni di Terralba, Zolzi di Sindia, Giòlzi di Bosa e Cuglieri, Re Zorzi di Bono, su Ceòmo di Fonni, Zizzaròne di Gavoi, Zorzi conchi-tortu di Silanus, e tanti altri. Per lo più finiscono al rogo, ma non mancano i casi di annegamento, defenestrazione, decapitazione, impiccagione ed altre morti ingloriose.


- LA PASQUA= La più importante festa della cristianità è per la Sardegna un annuale momento di incontro tra fede, tradizione e folclore. I riti della passione di Cristo si fondono armoniosamente con gli usi e costumi del passato, in un perfetto sincretismo fra religione cristiana e matrice pagana, quest’ultima legata (come, in effetti, tutti i momenti della vita dei sardi) al ciclo dell’attività contadina. I sentimenti di devozione - che si esprimono con la tristezza per la crocifissione di Gesù e la letizia per la sua resurrezione - coincidono, infatti, con il risveglio della natura e con il primo frutto del
lavoro dei campi. In precedenza essi venivano esaltati con le feste dell’equinozio primaverile.

PROCESSIONE DEI MISTERI: LUNISSANTI A CASTELSARDO
La più imponente e drammatica processione dei Misteri
è certo quella di Castelsardo che, dal giorno in cui ha luogo, prende il nome di Lunissànti (lunedì santo). Si fa risalire all’XI secolo ed è giunta fino ad oggi nella sua piena integrità. L’antico rituale inizia nella chiesa medioevale di Santa Maria con la celebrazione della messa sull’altare del Criltu Nièddu (il Cristo Nero, il più antico crocifisso ligneo conservato in Sardegna). Prende quindi il via la processione-pellegrinaggio dei cori e dei Misteri, che raggiunge nella tarda mattinata la chiesa di Santa Maria di Tergu. È questo il momento culminante del rito: la presentazione dei Misteri alla Madonna. Subito dopo viene celebrata la messa ed ha inizio il pianto dell’attìtu sul crocifisso. Popolazione, fedeli e forestieri seguono la processione in tutte le fasi sino a quella di maggior suggestività, e cioè la parte notturna. È infatti già buio quando il corteo, che rientra nella chiesa da cui era partito di primo mattino, si snoda attraverso le viuzze del centro storico, illuminato da innumerevoli fiaccole e risonante dei canti dei cori. Mentre il priore della confraternita si occupa delle cerimonie religiose, la prioressa sovraintende alla preparazione dell’“ultima cena”, offerta nell’abitazione del priore dopo il ritorno dei Misteri nella chiesa di Santa Maria. La cena rispetta un preciso cerimoniale, almeno per quanto riguarda i membri della confraternita cui viene riservata una saletta. Innanzi tutto deve essere costituita da almeno sette pietanze servite in altrettanti piatti che, l’uno sull’altro, sono già sistemati nei posti dei commensali. Un accorgimento non casuale, ma strettamente legato alla tradizione sarda: infatti con i pranzi ad alto livello si intendeva dimostrare una situazione economica agiata, anche se allo stesso tempo ciò evitava un eccessivo impiego di mano d’opera. Questa cena fa parte dell’antica consuetudine di far rifocillare quanti partecipavano alle estreme onoranze per un parente defunto (l’accunòltu).

La processione dei Misteri si svolge in quasi tutti i centri della Sardegna. Quella di Cagliari - che è stata riproposta nel 1982 dopo sedici anni di interruzione - ha luogo il venerdì di passione (ossia quello che precede la Settimana Santa). Organizzata dalla confraternita del Santo Cristo, parte dalla chiesetta omonima, e visita sette chiese, in ciascuna delle quali entra un solo simulacro.
La riforma liturgica del Concilio Vaticano II ha invece fatto scomparire il “mattutino delle tenebre” (su mommodìnu). Si trattava di un triduo le cui orazioni si recitavano davanti all’altare maggiore, sul quale era sistemato un candelabro con quindici candele; intendevano rappresentare le tre Marie ed i dodici apostoli. Per attestare il distacco di ciascuno di essi da Cristo, che andava verso la crocifissione, dopo ogni versetto si spegneva una candela.


- IL BALLO SARDO= È impossibile indicare una data d’origine ai balli popolari sardi, anche perché al riguardo non esistono testimonianze. Certo è che risalgono a tempi immemorabili, ed inizialmente gli si attribuiva un significato magico. Molti di essi, infatti, sono, allo stesso tempo, ritmiche cantilene malinconiche e riti orgiastici. I più antichi sono, senza dubbio, quelli “in tondo”, che vanno accoppiati sia alle launèddas, sia al fuoco collocato al centro di un gruppo di ballerini; essi vi formano attorno una catena circolare, in evidente connessione, appunto, al culto pagano del fuoco che, peraltro, ancora oggi trova modo di manifestarsi nelle ricorrenze in cui si accendono i falò, in particolare il 16 gennaio, vigilia di Sant’Antonio abate. Non a caso, questo è definito Sant’Antoni de su fogu.
Lo studioso Giovanni Lilliu vede nel ballo “una vera orgia mimico-musicale propiziatrice d’amore”, abbastanza vicina ad una danza rituale magico-erotico-sessuale. Per Padre Bresciani, invece, il ballo tondo sarebbe una reminiscenza del culto di Adone: vi si può notare, egli sostiene, il pianto delle feste Adonie e la disperazione delle donne sul corpo del giovane (che nel ballo sta al centro della catena) ucciso dal cinghiale e resuscitato per l’intervento di Proserpina. Alla base di tutto, comunque, sembra esserci il culto fallico fecondatore, che si rivela in molte usanze della Sardegna.
Per la maggior parte degli studiosi il ballo sardo è di origine greca: “Le danze greche, cristianizzate dalla Chiesa ortodossa, divennero una cerimonia speciale del culto; si mantenne vivo a lungo in tutti quei paesi che facevano parte dell’Impero bizantino”.
In linea di massima, i balli sardi possono essere suddivisi in due tipi: rituali ed erotici. Le differenze fra gli uni e gli altri sono assai evidenti. I balli rituali si basano soprattutto sul cerchio che ruota, una figura presente sia nelle danze del mondo contadino sia in quelle del mondo pastorale. Il passo è uguale per uomini e donne, per quanto non sia obbligatoria la differenza di sesso per formare la coppia.
A distinguere i balli erotici è, innanzi tutto, il fatto che si effettuino in coppia uomo-donna ed in catene di coppie. Talvolta l’uomo può ballare con due o più donne. Il passo varia sia fra ballerini di diverso sesso, sia fra le due aree culturali. Fondamentalmente, il ballerino esegue il passo più complicato ed appariscente, mentre la donna lo accompagna con un passo più facile. Il ballo erotico del mondo contadino prevede, inoltre, passi brevi ed intricati; intrecciati e strisciati da parte degli uomini, quasi scaturissero da una volontà di esibizionismo. Lo stesso ballo nel mondo pastorale si esplica con un passo saltellato e rivolgendo particolare attenzione alla coreografia. In tutti i casi, rompere la catena dei ballerini è considerata un’offesa tale che anticamente poteva essere punita con la morte.

Il ballo più diffuso nell’isola è su ballu tundu (il ballo tondo) o duru-duru, certo il più semplice, imperniato su un cerchio che si scompone ma al quale si torna inevitabilmente, dopo ogni variazione coreografica. Questo potrebbe esser considerato il ballo sardo per antonomasia (non a caso viene chiamato anche ballu sardu), sia perché sembra che, in tutta l’area mediterranea, venga praticato solo in Sardegna, sia perché in esso il profano tende ad identificare tutti i balli dell’isola.

Da molte parti si balla su passu torràu (il passo che ritorna), detto anche ballu sèriu (ballo serio), una danza imponente, caratterizzata da un passo che si ripete e si conclude con una genuflessione. Le figure, però, variano leggermente da un paese all’altro.

In tutto il Campidano di Cagliari è diffuso anche su ballu ‘e sa stella (il ballo della stella) che, come si rileva dalla stessa definizione, vede i ballerini disposti a forma di stella.
Pure campidanese è sa sciampìtta (il passo incrociato): un ballerino, sorretto da altri due, effettua una serie di acrobazie agitando le gambe verso l’alto al ritmo della musica, mentre gli altri componenti del gruppo ballano sullo sfondo con passi incrociati, un po’ strisciati ed un po’ sulla punta dei piedi. Questo ballo spettacolare troverebbe origine in un duello, praticato anticamente a Quartu Sant’Elena, nel quale gli avversari, sorretti dai propri padrini, utilizzavano solo i piedi per tirarsi calci. Oggi quel tipo di scontro è ormai scomparso, ma il ballo che ne è derivato continua a ricordarlo anche con le definizioni, meno in uso, di su ballu de tirài de pei (il ballo a tirar di piedi) e a sa scelleràda (alla scellerata).

Un curioso cerimoniale funge da filo conduttore in su ballu ‘e cumbìru (il ballo dell’invito). L’uomo invita la fanciulla a ballare ma questa rifiuta. Invito e rifiuto si ripetono diverse volte finché la dama acconsente. I due si possono quindi sbizzarrire in un assolo, mentre tutto il resto del gruppo balla sullo sfondo col caratteristico passo del Campidano. Questo ballo può essere svolto con una variazione che si conclude lasciando un cavaliere privo di dama: è chiamato su ballu ‘e ogài, e cioè il ballo ad escludere. Divertente, e molto simile, è su ballu de lu ciùcciu (dell’asino), che si pratica a Stintino e vede nel ruolo dell’asino un cavaliere che, a causa delle esclusioni, finisce per ritrovarsi senza dama.

La sensazione di ballerini claudicanti dà il nome a su ballu inzòppu (zoppo), nel quale gli uomini saltellano velocemente, appunto come se zoppicassero. Una certa somiglianza si nota in su ballu de is ferrère. La traduzione letterale è il ballo dell’offerente, e si spiega in modo semplice: gli uomini ballano senza la dama con passo claudicante. Per poter fare coppia con una fanciulla debbono accostarla e darle un’offerta che, però, è destinata al suonatore. A questo tipo di esibizione si può assistere a Teti per i festeggiamenti in onore di San Sebastiano, l’ultima domenica di settembre.

Un altro ballo dell’offerente si effettua ad Ottana. È una selvaggia danza carnevalesca che si svolge attorno a s’affuènte, un piatto di bronzo ed ottone al cui interno si sfrega una chiave, per ottenere un rumore ritmico. Il ballo ha un significato propiziatorio per auspicare un buon raccolto. Un cenno rapidissimo (se ne tratterà meglio fra le tradizioni del Carnevale) merita un ballo che rientra nelle tradizioni di Mamoiada. Si tratta di una processione danzata apotropaica (ossia in grado di allontanare un’influenza magica maligna) di cui sono protagoniste le maschere locali dei mamuthònes.

Il corteggiamento stava, invece, alla base di una danza in voga nel passato a Selegas. Una fanciulla sedeva al centro di un cerchio di ballerini e seguiva attraverso uno specchio le evoluzioni del suo corteggiatore. Sempre a Selegas è ancora praticato su ballu de su babbu de is òrfanas in cui un ballerino, nel ruolo di padre delle nubili, le invita, una alla volta, a sedere al centro del cerchio ed intesse le lodi di ciascuna di esse, finché gli altri ballerini si fanno avanti per un corteggiamento che, però, non sempre incontra favore.

Due danze decisamente erotiche sono sa arroxàda e su dillu (o dìllaru). Nella prima l’uomo può ballare contemporaneamente anche con tre donne, alternando il passo lento a quello turbinoso, con incroci che formano un nodo d’amore. La seconda accoppia un cavaliere a due dame e si esprime con compostezza quando è ballata da persone anziane, mentre lascia trasparire una certa scontentezza quando ne sono protagonisti i giovani. Sa arroxàda si balla ormai in tutta l’isola, ma le sue origini sono di Samugheo; su dillu, invece, è localizzato a Gavoi.

Circoscritto ad Oliena è s’àrciu, caratterizzato da una specie di salto; e saltellati sono pure su passu trincàu e ballu cabìllu, entrambi legati al mondo pastorale. Alla stessa cultura appartiene il ballo a boghe ‘e tenòres (a voce di tenori), così chiamato perché si svolge in stretta connessione col ritmo armonico del coro a tenòres, un canto che sostituisce egregiamente la musica strumentale. Questo ballo rituale è per lo più appannaggio degli uomini.

- STUMENTI MUSICALI= Il più suggestivo e caratteristico strumento musicale è certamente rappresentato da is launèddas, la più antica testimonianza della polifonia, un tipico documento della vita arcaica sarda che, meglio di qualunque altro, è in grado di esprimere lo spirito della tradizione. Le sue origini, infatti, sono state collocate fra il VII e l’VIII secolo a.C., come conferma il ritrovamento di una statuina in bronzo risalente appunto al periodo nuragico, e conservata nel museo archeologico di Cagliari. Questo strumento, del cui nome si ignora l’esatto significato, si vuole abbia tratto ispirazione dal doppio clarinetto dei popoli egizi.
Le launèddas sono formate da tre canne (ma si ritiene che anticamente fossero di più). La più lunga è detta tumbu o bàsciu e si ottiene con tre pezzi di normali canne, incastrati l’uno nell’altro (in passato il pezzo era intero). La canna, prima di essere utilizzata, deve essere pulita all’esterno, svuotata all’interno e sottoposta a sei mesi di stagionatura all’ombra. Le altre due - che si chiamano mancòsa manna (la definizione trae origine dal fatto che viene sorretta e utilizzata con le dita della mano sinistra) e mancosèdda - sono di uno speciale tipo di canna, detta masku, tanto difficile da reperire che i costruttori dello strumento custodiscono gelosamente il segreto sulle zone in cui cresce. Il pregio di tale canna consiste nel fatto che ha le pareti sottili ma molto dure e da essa si traggono anche le linguelle rettangolari da inserire nel bocchino, dove si soffia per far scaturire languide note musicali. Le tre canne suonano insieme, ma solo la mancòsa manna ha quattro fori per le dita ed un altro per accordare l’insieme. Lo strumento consente di produrre più di due suoni contemporaneamente.
Non è facile l’uso de is launèddas. Occorre una lunga esercitazione ed una particolare abilità soprattutto per riuscire ad immettere con la bocca aria in continuazione, senza la minima pausa, facendo rifornimento dal naso. Queste difficoltà, se hanno sempre dato gran prestigio ai suonatori di launèddas, hanno anche contribuito a ridurne il numero. Fortunatamente da qualche anno si è manifestato un rinnovato interesse per l’apprendimento di quella che può esser considerata una vera e propria arte.

Altri strumenti sempre presenti nei balli tipici sono la fisarmonica (su sonètte), o organetto a bottoni, e la chitarra. La loro notorietà è tale da renderne superflua qualunque illustrazione. È sufficiente precisare che la chitarra già si usava in Sardegna nel XVI secolo per accompagnare i cantanti, anche se le prime notizie scritte risalgono al XVIII secolo e sono contenute in un registro del gremio dei falegnami di Oristano. La fisarmonica, invece, ha nell’isola poco più di un secolo di vita: né potrebbe essere diversamente, se si considera che è stata inventata nel 1829.

Meritano anche di essere ricordati su triàngulu e su pipiòlu. Il primo è un triangolo in acciaio temperato su cui si batte a tempo, producendo un suono squillante ed armonioso. Il secondo, simile allo zufolo dei pastori, è ottenuto con una canna affumicata sulla quale vengono praticati i fori per le dita. Se ne traggono eccezionali melodie.

Fra gli strumenti a fiato vi sono is trumbìttas e is benas. Le prime sono formate da un tubo di canna su cui, all’altezza del nodo, è tagliata un’ancia; le seconde da canne forate alle quali si applicano da una parte un bocchino (talvolta con un’ancia) e dall’altra zucche o corna di bue che amplificano il suono.

C’è poi su frùsiu, il rombo, uno strumento molto antico, costituito da un pezzo di legno rettangolare (nei primi tempi poteva essere anche sferico o triangolare) di circa dieci centimetri per quattro. Un foro praticato al centro permette il passaggio di uno spago lungo fra i trenta ed i quaranta centimetri. Per mezzo dello spago, il legno viene fatto ruotare con un movimento circolare che fa scaturire i suoni.

In alcune località, durante il carnevale, si usa ancora sa serràggia o violìnu antìgu. È composto da due pezzi: uno consiste in una canna lunga un metro e mezzo, ai cui lati è legata con due piroli una corda (ottenuta da un intestino di bue) che viene tesa da una vescica di maiale gonfia, e si raccorda ruotando i piroli; l’altro, indispensabile per trarre i suoni, è un piccolo arco di legno teso da una corda di crine di cavallo. La serràggia attualmente è utilizzata solo a Bosa per il carnevale ed a Sassari per la Cavalcata Sarda.

Uno strumento a percussione è su tumbarìnu. Si tratta di un tamburo rudimentale col ripiano in pelle di capra o di asino. In passato si usava anche la pelle di cane o gatto conciata con la cenere. Il tumbarìnu è utilizzato soprattutto in processioni o sfilate. Il che offre lo spunto per un cenno sugli strumenti che, in occasione della Settimana Santa, sostituiscono i rintocchi delle campane.

Questi strumenti, in legno od in canna, sono di origine spagnola e la loro denominazione è differente fra le varie località: matràccas, matraccònis, taulìttas, tàcculas, arrèulas, reo-reo, rainèddas, arranèddas, ecc.. La matràcca (nel Nuorese chiamata matràccula) è formata da una tavoletta incavata così da poter essere impugnata. Sulle facciate del legno sono due anelli rettangolari con la cerniera da un lato: agitando le tavole gli anelli sbattono sul legno. Più massiccio è su matraccòni, tanto che per farlo ruotare sono necessarie due persone. È composto da un paio di ingranaggi simili a quelli della matràcca, con due impugnature. C’è poi sa matràcca a roda o zirriòni: una tavoletta all’estremità della quale sono tre strisce di compensato dotate di un asse con manovella, una ruota dentata e due piroli laterali.

Le taulìttas e le tàcculas sono formate da tre tavolette rettangolari, due delle quali identiche ed una poco più grande col manico. Per mezzo di appositi fori, alla tavoletta più grande sono legate, ma lasciandole piuttosto larghe, le altre due, una per parte; agitandole, sbattono fra loro e producono un suono assai vicino a quello delle nacchere.

Il nome del reo-reo deriva dal rumore di una ruota dentata agganciata ad una canna e fatta girare in continuazione. Le arrèulas e le rainèddas o arranèddas o semplicemente ranas consistono in una canna con al centro due incisioni, sui cui lembi si incastra una ruota dentata. Appositi fori lasciano passare un manico che prende insieme la rotella e la canna. Facendole ruotare si ottiene una specie di gracidio.

L'artigianato= L’Artigianato sardo affonda le sue radici nell’arte e nella cultura del Mediterraneo; le forme creative tradizionali, che resistono al passare del tempo, si evolvono secondo il gusto moderno, pur mantenendo l’ispirazione ai modelli antichi.
Questa vera e propria arte si esprime attraverso gli oggetti in rame di Isili; i cesti in asfodelo di Flussio; i tappeti, gli arazzi e i ricami di Nule, Oliena, Dorgali, Silanus, Ghilarza, Mogoro, Samugheo, Villamassargia e Villanova Monteleone; le cassapanche e le altre pregevoli opere dell’intaglio di Desulo, Aritzo e Tonara; le ceramiche di Assemini, Cagliari e Dorgali; i capi di sartoria tradizionale di diversi paesi della Barbagia; le pipe dell’Anglona e i coltelli del Logudoro; l’oreficeria con i preziosi e raffinati gioielli che, in una varietà davvero ampia, costituiscono il corredo degli antichi costumi femminili della festa in quasi tutti i centri dell’Isola.